domenica 18 luglio 2010

UNA VOCE NEL SILENZIO

(Nella foto, la copertina del libro di Daoud Hari)

Chi di voi non conosce mia figlia Lara, chi di voi non ha ricevuto da lei un sorriso, un bacio, un abbraccio affettuoso. Lara è una ragazza affetta dalla sindrome di Down. Da quando è arrivata al mondo, ho cercato con tutto il mio amore e con l’enorme aiuto dei medici e di terapisti, di migliorare la sua situazione. In tutti questi anni, ho sempre sperato e pregato tanto di riuscire a superare i momenti difficili. Il cammino verso il suo inserimento nella società è stato pieno di ostacoli, affrontati insieme, e sempre con coraggio. Giorno dopo giorno, ogni suo piccolo progresso è stato per me motivo di immensa gioia. I costanti miglioramenti di Lara, mi hanno dato la forza di andare avanti, di combattere, di non arrendermi mai. Da circa tre mesi, tutti i miei sacrifici e i suoi brillanti progressi, sembrano svanire nel nulla. Lara ha una forte depressione, diventata sempre più malinconica, non ha più voglia di scherzare, di sorridere, di parlare. All’improvviso ha trovato grande difficoltà ad accettare la sua “differenza” e quindi ha creato attorno a se uno spazio impenetrabile, dove con la fantasia realizza ogni suo desiderio. Si è chiusa in una propria realtà, rifiutando l’ambiente esterno. Per me sono ricominciate l’ansia e l’angoscia di ascoltare le diagnosi mediche, la disperata speranza di cercare ogni soluzione che consenta a Lara di uscire dal tunnel, la tristezza di immaginare per lei un futuro buio e pieno di incognite. Tutto quello che insieme a lei ho costruito, si sta frantumando inesorabilmente, e forse per questa volta, Dio mi perdoni, non so se avrò la forza necessaria per ricominciare a lottare fino in fondo.Lara ha sbattuto la porta in faccia al mondo, ed io continuo inutilmente a bussare sperando che lei mi apra e torni nuovamente a sorridere. L’affetto della famiglia è importante, ma spesso non basta. Mia figlia ha bisogno di socializzare e divertirsi con i ragazzi della sua età. Alle volte leggo nel suo volto l’amarezza di credersi dimenticata, la delusione di non poter fare tutto ciò che per altri suoi coetanei rientra nella normalità. Altri genitori vivono il mio stesso problema e molti di essi sono soli, rassegnati e trovano enormi difficoltà per chiedere al prossimo un aiuto concreto. Spesso, distrutti da mille problemi quotidiani, perdono di vista o sottovalutano alcune tristi realtà che ci circondano. E pensare che basterebbe poco per offrire a molti ragazzi “meno fortunati” una valida opportunità di vivere una vita “normale”. Ad esempio, ogni associazione, ogni società Sportiva o chiunque abbia voglia, potrebbe dedicare loro qualche piccola iniziativa. Inoltre, sarebbe meraviglioso creare nel nostro comune un centro di incontro dove i disabili, svolgendo varie attività (musica, teatro, pittura, ecc…), abbiamo la possibilità di aggregarsi anche con persone “più fortunate” di loro e non sentirsi quindi emarginati. C’è bisogno assoluto dell’opera di tutti, a cominciare dalla convinzione che il portatore di handicap è uno di noi e che tutti gli uomini hanno il diritto-dovere di vivere e far vivere.
P.S.
Questa lettera l’ho scritta qualche anno fa quando Lara e’ stata molto male, la mia fede, la mia forza di madre, l’amore verso mia figlia mi ha premiata.Questo messaggio cerco di portarlo a tutti quei genitori che come me vivono lo stesso problema e che si ritrovano da soli.Se tu non molli la presa e la fede, DIO non ti lascia, veglia sempre su chi è più debole e sofferente.Un abbraccio, Angela Musumeci Bianch
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Daoud è nato in un piccolo villaggio di capanne, nel Darfur. Capanne rotonde, spaziose, con il tetto di erba che quando piove profuma di buono. E nonostante sia stato lontano anni, prima per studiare in città, poi per lavorare in Libia, Daoud l'ha sempre portato nel cuore. Tanto che, dopo varie e drammatiche vicissitudini, ha deciso di tornare a casa, facendo il percorso inverso a quello di milioni di profughi. Ha ritrovato la sua gente, suo padre e i suoi fratelli, in particolare l'amato Ahmed, appena prima di perdere tutto. Un giorno il villaggio è stato attaccato, le capanne bruciate e Ahmed è stato ucciso. L'ha sepolto Daoud con le sue mani, nella sabbia, prima di incamminarsi nel deserto con i sopravvissuti. Alle loro spalle, le colonne di fumo disperdono nell'aria le ceneri di case, alberi, e anche dei corpi dei vecchi che non hanno voluto o potuto andarsene. Lontane dalla ribalta del mondo, scene come questa accadono quotidianamente nel Darfur. In questa regione del Sudan tanto povera in superficie quanto ricca nel sottosuolo, si consuma da più di vent'anni un genocidio silenzioso e indisturbato, per mano dello stesso governo sudanese.

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